Avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò fino alla fine”(Gv 13,1). Fin dove giunge l’amore di Dio per noi? Gesù, nell’ora della sua passione, ce ne rivela la misura. Si tratta di un amore che non si fa condizionare o limitare dal rifiuto, dall’ingratitudine, dall’abbandono. E’ un amore che ha il sapore del definitivo perché Dio si abbassa fino a giungere là dove gli uomini si oppongono al suo stesso amore. Il suo nome è: ‘dedizione’.

1. DEDIZIONE, STILE DI UNA VITA
Noi utilizziamo il termine dedizione quando vogliamo designare quella forma di donazione che non conosce limiti. Infatti quando uno svolge un’attività o vive un incontro, ma non vi è del tutto coinvolto, ci serviamo di termini quali “impegno”, “servizio”, “compito”, “ruolo”. Quando invece noi impegniamo tutto noi stessi per qualcosa o per qualcuno, allora usiamo il termine dedizione. Si tratta di gesti di uscita da sé in favore di altri che possiamo qualificare come definitivi, non perché non se ne compiranno più, ma perché in essi veniamo coinvolti con tutto di noi. Dedizione quindi è un perdersi per ritrovarsi, perdere il sé, inteso come controllo e potere su di sé, per ritrovare sé nell’abbandono ad altri. Nei gesti della dedizione io sono quello che altri mi chiedono di essere, la mia è un’identità di esilio. Io sono davvero io solo là dove da altri sono chiamato ad essere, mentre non sono davvero io dove penso di essere (“Sono dove non penso, penso dove non sono”, Lacan). Donare quello che so di essere è economia, misura; donare quello che sarò chiamato ad essere è abbandono, fiducia, dedizione. Nel primo caso so quello che posso dare e quindi conosco anche il limite del mio dono, nel secondo caso il dono è senza limite, perché sarò quello che un Altro mi chiamerà ad essere.
Facendo seguire il gesto della lavanda dei piedi al versetto “li amò fino alla fine”, l’evangelista Giovanni vuole farci conoscere che Gesù nell’ora della sua passione ha voluto realizzare compiutamente quel nuovo modo di esserci per l’altro, che egli ha inaugurato, un modo che non si esaurisce in atti singoli, ma che diventa uno stile, lo stile che caratterizza tutta la sua vita, lo stile appunto della dedizione.

2. QUESTO È IL MIO CORPO: L’EVENTO
Nella passione-croce, anticipata ritualmente nella cena di addio con i suoi discepoli, contempliamo Gesù che attraversa tutte le conseguenze del no umano al suo amore, senza mai smettere di amare. L’amico degli uomini, è abbandonato e tradito anche da coloro ai quali ha dedicato una cura particolare e che lo hanno seguito più da vicino. Nello stesso tempo il Figlio, la persona più legata al Padre, colui che non esiste senza di Lui, sperimenta il dolore più grande: essere lontano da Colui dal quale non è separabile. Sono separati i due che non possono esistere separati.
In tal modo Gesù ha preso su di sé ogni condizione di lontananza dal Padre e dai fratelli. A partire da quell’ora non potrà esistere per nessun uomo una condizione di separazione definitiva: l’esclusione di Gesù vince ogni esclusione. Ogni oscurità è ormai visitata dall’Amore e ogni distanza è attraversata. Anche là dove nessuna parola è più rivolta, dove è assente la relazione, dove tace l’invocazione, Gesù è giunto. La salvezza non è prima della sofferenza e della morte, ma la salvezza è proprio nella sofferenza e nella morte. Proprio questa è l’ora in cui Gesù ha potuto dire con verità piena: “questo è il mio corpo”. La comunità crolla, i legami di sequela vengono sovvertiti e negati. Proprio in quest’ora Gesù trova nei gesti della lavanda dei piedi e del pane spezzato la forma per assumere e trasformare la crisi delle relazioni. Gesù rivela una passione per la ricomposizione dell’umano che non viene meno neppure davanti al rifiuto del dono. Anche per Giuda c’è un boccone, benché tragicamente rifiutato! Proprio quando sta vivendo l’interruzione delle relazioni, Gesù reagisce facendosi presente, come non aveva mai fatto prima. “Questo è il mio corpo”: “questo è il mio modo di essere presente, io sarò sempre presente così, come uno che si dà e basta, uno che ha una così forte passione per la vita dell’altro che arriva a prendere la forma della disponibilità a morire per lui”. Ecco la forma della ‘dedizione’!
Agendo in questo modo Gesù rende impotenti i prepotenti. L’uomo crede di poter ottenere l’affermazione di sé mediante il sacrificio dell’altro, Gesù desidera consacrare l’altro, dargli dignità e lo fa mediante il sacrificio di sé. Con l’atto della dedizione totale di sé Gesù sancisce la fine di una “santità” intesa come separazione, come requisizione da parte dell’Assoluto, una santità senza ospitalità, che non sa includere il rifiuto, la fragilità, le ferite, la morte.
Ma come potrebbe finire una tale esistenza per gli altri, quando al momento del suo compimento si fa dono totale? Può morire un movimento di dono nello stesso istante in cui si compie? Può morire un’esistenza quando la sua morte è un ‘morire per’? Questa totalità di dono invoca una risposta: come potrà non essere ascoltata? Quando l’invocazione comporta il dono della vita fino alla fine, potrà la risposta non contenere in cambio la vita?
La risurrezione è la risposta del Padre all’invocazione racchiusa nella dedizione di Gesù, e realizza in lui in modo definitivo lo scambio infinito dell’amore tra l’uomo e Dio. La risurrezione costituisce in modo permanente Gesù nella dinamica del suo ultimo atto, la dedizione di se stesso al Padre per tutti. Il Risorto porta i segni della Passione, perché in quel gesto definitivo di dedizione si compie il Mistero dell’Amore.

3. QUESTO È IL MIO CORPO: IL SACRAMENTO
Come stare davanti a quest’ora perché trasfiguri le ore e i giorni della nostra vita?
Davanti a un evento così singolare e straordinario non si può reagire in primo luogo se non con il sentimento del ringraziamento. Non si può dimenticare una morte, quando questa è stata dono di vita, e non si può non innalzare un’azione di grazie, quando la vita dell’altro è stata considerata più preziosa della propria. La morte di Gesù è dono di vita:: per la sua morte noi viviamo! Come potremmo davanti a tutto questo rimanere senza sentimenti, indifferenti e insensibili? Come continuare a vivere mediocremente, se Cristo è morto per noi e la nostra vita nasce dalla sua morte? La celebrazione eucaristica dà linguaggio a questo nostro desiderio di ringraziamento, opera trasformazioni impensate e scrive nella nostra carne la logica della dedizione. L’Eucaristia, centrata sul dono del corpo e del sangue, trasforma i distanti in destinatari del dono e i traditori in ospiti. Noi facciamo fatica a tenere insieme dedizione e fragilità, per questo ogni domenica attendiamo di nutrirci del corpo di Cristo.
Ma poiché la morte di Gesù è avvenuta come atto di invocazione, e la risurrezione è la risposta del Padre a tale perfetta invocazione, noi non possiamo aver parte pienamente a tale evento se non perseverando in un atto che vi corrisponda. Gesù, a motivo della sua morte, non è più visibile, ma può e vuole “darsi a vedere”. Gesù risorto è colui che ama farsi presente. La sua presenza infatti non è più condizionata dalla visibilità del suo corpo, ma dipende solo dal suo amore, dalla sua volontà di comunicarsi, sulla quale nessuno ha potere, se non egli stesso. Gesù è il Signore della sua manifestazione. È finito perciò il tempo della visione e inizia quello della invocazione e della proclamazione della sua signoria. L’esperienza pasquale accade nella confessione di fede e nell’invocazione del suo nome. E questo ormai è possibile a partire da ogni situazione, come recita l’orante del salmo 61: Sull’orlo dell’abisso io t’invoco!
Se la risurrezione non fosse stata attestata dai discepoli di Cristo, noi non ci interesseremmo della vita e della morte di quest’uomo, ci importerebbe soltanto la sua dottrina. Ma se si testimonia che Gesù è risorto, l’attenzione non è al suo insegnamento, ma alla sua persona e alla nostra relazione con lui. Così è nata la Chiesa. La comunità dei discepoli, che sembrava finita con la morte di Gesù, è risorta con la sua risurrezione, perché tutto dipende da una relazione da vivente a vivente. Come è potuta accadere questa risurrezione della comunità? E come ancora oggi possono accadere conversioni, trasfigurazioni, cambiamenti di vita? Senz’altro tale miracolo ha a che fare con il darsi a vedere di Gesù in tali chiusure. E’ questo il nuovo volto della sua dedizione. Ma se i destinatari dell’apparizione non si fossero trasformati in testimoni, se cioè non avessero compiuto l’atto della comunicazione della fede, anche le apparizioni sarebbero rimaste sepolte dietro porte chiuse e il mondo sarebbe rimasto privo di speranza.
L’azione di grazie verso il Padre, Colui che ci ha donato questo Salvatore, l’invocazione al Figlio, Colui che è morto per noi, e la testimonianza del suo farsi sempre di nuovo vicino in una relazione da vivente a vivente, costituiscono ancora oggi il modo per entrare in questa via aperta, che è la Pasqua della nostra salvezza.