Proprio a Verdun si recheranno in pellegrinaggio i vescovi della COMECE (Commissione degli episcopati che fanno parte dell’Unione Europea) l’11 novembre prossimo. Innanzi tutto per commemorare le vittime del primo conflitto mondiale e per pregare per la pace in Europa e nel mondo. Ma vi è pure un’altra motivazione che possiamo qualificare come penitenziale. Se, da parte dei cristiani, molto è stato fatto per alleviare le drammatiche sofferenze causate dalla guerra, poco è stato fatto per evitarla. Furono poco ascoltati i ripetuti messaggi di papa Benedetto XV, eletto papa il 3 settembre 1914. Da subito, già nel suo primo messaggio dell’8 settembre, rivolgeva «un’esortazione a tutti i cattolici del mondo per la pace (…): vediamo tanta parte d’Europa (…) rosseggiare di sangue cristiano». Nella sua prima enciclica (pubblicata il 1° novembre 1914), egli si appellò ai governanti delle nazioni per far tacere le armi che causano «gigantesche carneficine». Più tardi definì la guerra «inutile strage», «suicidio dell’Europa civile». Ma i capi delle nazioni non accolsero i messaggi di pace. Anche l’opinione pubblica in Francia, in Germania e in Austria reagì in modo negativo, con tono oltraggioso.Le Pape boche, «il Papa crucco», si diceva in Francia, mentre in Germania era «il Papa francese»,der französische Papst. Anche il clero e gli stessi vescovi non seppero distinguere la lealtà nazionale dal nazionalismo.

Tra pace e interventismo

In Italia, durante il primo periodo di neutralità, i vescovi considerarono la guerra come un male. Ma, dopo la dichiarazione di intervento da parte del governo italiano, anche in Italia, salvo alcuni casi, si consolidarono le professioni nazionaliste. Pur con distinzioni e sfumature, l’episcopato italiano fu influenzato dalla lealtà nazionale e dalla solidarietà patriottica, anche se era attento ai bisogni e ai sentimenti della popolazione rurale, contraria alla guerra. Certamente il contesto era problematico. Nelle allocuzioni pastorali era difficile lasciar trasparire lo sforzo della distinzione tra la fedeltà alla patria e l’interventismo. Tanto più che i pregiudizi anticlericali del governo si accentuavano di fronte a posizioni in qualche modo pacifiste, subito dichiarate antipatriottiche, mentre tendevano ad attenuarsi di fronte ad una certa mobilitazione ecclesiastica per la patria.

Sul piano pratico, la dedizione pastorale fu notevole, con molti sacrifici e con grande carità. Molti sacerdoti furono chiamati alle armi e condivisero i gravi disagi delle truppe. Fu pure notevole l’impegno di evitare lo scoraggiamento della popolazione civile e di rafforzare la tenuta morale dello stesso esercito. In ogni caso, la Chiesa italiana svolse l’impegnativo compito di aiuto umanitario, con l’assistenza ai feriti, l’accoglienza dei profughi e dei prigionieri di guerra, superando le visioni nazionaliste in nome dell’universalità della carità. Ma occorre riconoscere il rischio di un certo slittamento ideologico, anche per l’oggettiva difficoltà di mantenere un equilibrio tra la lealtà patriottica e il ministero pastorale in un contesto incline all’interventismo. La Santa Sede arrivò ad imporre, nel maggio 1915, alcuni limiti alla partecipazione dei sacerdoti e dei vescovi a cerimonie connesse agli eventi bellici.

Non tradire i giovani

Vi è, infine, un’ulteriore motivazione di questo pellegrinaggio, altrettanto significativa. Desideriamo rendere grazie al Signore per il dono di quei “padri fondatori” dell’Europa unita che, dalle macerie causate dalle guerre fratricide, hanno saputo costruire il grande progetto di pace riconciliando nazioni e popoli europei. Spicca, in particolare, la figura di Robert Schuman, morto in quelle terre insanguinate dalla grande battaglia, precisamente vicino a Metz, nel settembre 1963, poco più di cinquant’anni fa.

Nato in Lussemburgo da padre lorenese, egli aveva visto che le guerre causavano povertà e suscitavano la nascita di sentimenti di rivincita. Mentre era ministro degli esteri del governo francese, questo politico cattolico (il 29 maggio 2004 si è concluso il processo diocesano che ha proclamato Schuman «servo di Dio»), fece la storica Dichiarazione, da cui prese il via il processo di integrazione europea. Era il 9 maggio 1950. Insieme a De Gasperi, Adenauer e Monnet, Schuman lavorò intensamente per favorire «la pace in Europa» che «è la chiave della pace mondiale». Nel 1958 venne eletto per acclamazione primo presidente del nuovo Parlamento europeo, sostenendo che l’integrazione economica è la struttura di base, importante ma non sufficiente, per fare dell’Europa la casa comune.

Il cammino europeo deve favorire «l’unione spirituale»: solo così si potrà valorizzare ciò che fa parte della migliore tradizione culturale europea. Senza questa visione alta, l’Europa resta confinata in procedure amministrative e in tecniche finanziarie e sarà incapace di resistere all’assalto dei populismi e dei nazionalismi di ogni genere. R. Schuman ci avverte che l’Europa, se vuole vincere la sfida con il futuro, deve lavorare insieme e condividere grandi obiettivi comuni: l’unione deve essere anche culturale, artistica, associativa, spirituale.

Forse è per questo che Martin Schulz, presidente dell’Eurocamera, ha invitato papa Francesco: il 25 novembre Francesco sarà a Strasburgo, in Alsazia, per visitare il Parlamento europeo e il Consiglio d’Europa (cf. Sett. 38/2014 p. 16). «Il papa dà coraggio alle persone con la sua linearità onesta», ha affermato Schulz. Non solo il Parlamento ma l’Europa tutta ha bisogno di questo coraggio per ritrovare se stessa, per ricuperare lo spirito comunitario e per riprendere a parlare con la sua voce.

E anche per rispondere alle attese dei giovani europei. È infatti questa la nota più intertessante di questa difficile situazione: secondo gli ultimi dati dell’Eurobarometro, l’orientamento della popolazione giovanile nei confronti dell’Unione Europea continua a rimanere positivo. Per il 70% degli under trenta, l’UE costituisce un fattore di forza e i giovani fanno coincidere il loro futuro con quello europeo. Innanzi tutto a livello della loro vita personale, con la possibilità di viaggiare e di lavorare in paesi diversi. Ma anche a livello delle istituzioni: l’UE viene vista come una struttura indispensabile per avere voce sulla scena internazionale. Questa valutazione positiva comporta tuttavia un giudizio critico circa il modo in cui l’Europa affronta la crisi: la maggioranza della popolazione giovanile ritiene che l’Europa stia andando nella direzione sbagliata. Le nuove generazioni vogliono l’Europa, ma la vogliono diversa.

Francesco a Strasburgo

Il difficile momento storico è un’occasione per quel salto di qualità che l’Europa, dopo l’allargamento e dopo l’euro, non ha saputo fare per mancanza di slancio ideale: il senso di una comune cittadinanza europea non si è radicato, le istituzioni sono apparse lontane dalla vita delle persone e dalla coscienza diffusa, le divergenze sulle politiche di austerità hanno minato la fiducia reciproca. La sfida è difficile, quasi titanica. Papa Francesco ci aiuterà a riscoprire l’amore per la vita che sembra essere venuto meno: «Voi, europei, amate ancora la vita?», domandò ad alcuni vescovi. E ci indicherà quell’orizzonte umano-etico-spirituale verso cui dobbiamo guardare, sapendo che «la città dell’uomo» non è solo frutto dei rapporti economici ma è anche frutto – ancora più e ancora prima – delle relazioni di gratuità, di solidarietà, di accoglienza, di fraternità.

(+ Gianni Ambrosio)

FONTE: Articolo pubblicato sul N. 39 del 2014 della rivista “Settimana”.