La settimana Santa è raccolta tra due momenti di gloria: l’ingresso di Gesù a Gerusalemme, tra grida osannanti della ‘folla dei suoi discepoli’ e la lode che sale ai cieli “per i prodigi che avevano veduto” e il mattino di Pasqua, nel quale risuona l’annuncio che non è da cercare tra i morti Colui che è vivo. Eppure in mezzo ci sono giorni di prova, di abbandono e di solitudine mortale, di morte e di tenebre… Una parentesi dolorosa da dimenticare? Un semplice incidente di percorso che sarebbe stato meglio non ci fosse?

Al contrario. È una decisione di Gesù di restare fedele al mandato del Dio-con-noi. Si compie ciò che san Paolo riassume nell’inno ai Filippesi che abbiamo ascoltato nella seconda lettura: “(…) svuotò sé stesso assumendo una condizione di servo, diventando simile agli uomini”. Si svuotò di ogni privilegio derivante dalla sua origine divina, per colmare questo vuoto con una condizione di servo (potremmo dire di ‘servo di Jahvé’). Simile agli uomini – alla maggioranza di essi – che non possono permettersi di sottrarsi ad una condizione di vita dolorosa, di violenza e di abbandono. Simile agli uomini che da sempre non possono fuggire da una sequenza di reiterate ingiustizie. Chi di noi non prenderebbe al volo l’opportunità di sottrarsi alla violenza gratuita e ingiustificata? Chi di noi non patirebbe lo scandalo di fronte alla violenza perpetuata con l’avvallo della religione di stato? Chi di noi non avrebbe motivo di dubitare di un Dio che è chiamato in gioco per giustificare una qualsiasi azione distruttiva?

Gesù rimane. Rimane dentro a ciò che avrebbe potuto evitare (“se sei figlio di Dioscendisalva te stesso…”). Gesù patisce sulla propria carne la lotta con un Dio che sembra lontano e indifferente. Vive lo scandalo dell’impotenza: è proprio giusto non fare nulla? In questo modo Dio manifesta da che parte sta. Nella violenza che porta alla crocifissione di Gesù, come in quelle che si reiterano nel corso della storia. Nessuno può più ingabbiare Dio dentro ad un progetto di morte, pena bestemmiare il nome di Dio.

Dio nei prossimi giorni di passione scende nel profondo dell’abisso umano, in quelli che sono stati definiti i sotterranei della storia. Scende dove l’uomo perde la somiglianza di Dio creatore e sfigura il volto del fratello, scende in quel Figlio che perde ogni bellezza e di fronte al quale ci si copre il volto. Scende per abbassarsi a livello dell’umanità annientata… È straordinario il nostro Dio e la sua opera: domenica scorsa si abbassa per incrociare il volto, il cuore e la vita della donna accusata di adulterio e umiliata; in questi giorni accetta di essere innalzato sulla croce per essere a fianco dei malfattori puniti per ciò che hanno commesso. Offre loro la salvezza, il riscatto perché lo possono ritrovare proprio lì, nell’ultimo atto della loro vita.

In questi giorni allora si realizza il giudizio sulla storia, in maniera inequivocabile, senza tanti distinguo pericolosi. Gesù che riconosce vera per sé la profezia del servo di Jahvé è tutt’altro che un passaggio indolore. È una morte, prima ancora che fisica, dell’innato spirito di sopravvivenza, del senso di giustizia che invochiamo. Ma solo così ciascuno, in qualsiasi situazione si possa trovare, lo trova accanto a sé: condannato ingiustamente, sofferente e abbandonato nonostante una vita donata, sfigurato nella sua bellezza e dignità di figlio di Dio. Che strana questa regalità nella quale si mostra Gesù, non dominatore violento, ma vittima con ogni vittima della storia. Un Re che si fa servo.