«Le nuvole non si sono ancora diradate, ma la parte peggiore della crisi sembra sia passata», si sostiene da più parti a livello europeo, auspicando un’accelerazione decisa della ripresa economica. Un auspicio condiviso da tutti, in particolare per far fronte all’ormai insopportabile livello di disoccupazione giovanile. Ma la metafora delle nuvole va oltre l’immediato riferimento meteorologico e supera la contingenza del momento presente: lascia infatti intendere che dietro alle nuvole che incombono vi sia il cielo. Ma sorge la domanda: la nostra esclusiva attenzione al presente e ai problemi immediati non ci impedisce di guardare verso l’alto? E ancora: non è forse ben più profonda e radicale la crisi in cui versa l’Europa, proprio per il fatto che non appare più il cielo europeo, oscurato da una nuvola cupa, dalla mancanza di orizzonte, dallo scetticismo, da una cultura rassegnata?

Sarebbe bene, anche in vista delle imminenti elezioni del Parlamento di Strasburgo, che ci si impegnasse a far emergere ciò che impedisce di guardare oltre. Un impegno decisamente necessario per superare l’euroscetticismo che si è diffuso in molti Paesi e per evitare soprattutto di sprofondare nella deriva populista. Portare indietro l’orologio della storia vorrebbe dire richiudersi nel piccolo mondo dei nazionalismi. Certo, deve essere assolutamente colmato il distacco fra la cittadinanza da una parte e le istituzioni comunitarie dall’altra (con le varie e forti lobby, con la pesante burocrazia). Senza dimenticare, tuttavia, che anche all’interno di ogni Paese è necessario superare quella sfiducia verso la politica, su cui è facile far leva con proclami demagogici. Ricordando che la costruzione europea è nata sulle rovine delle due guerre chiamate mondiali, ma che in realtà sono state guerre fratricide all’interno dell’Europa. E l’obiettivo era quello di promuovere la pacificazione partendo innanzitutto dalla  cooperazione economica

Oggi ci troviamo di fronte a una crisi che esige una riflessione più profonda e una discussione aperta. Non è possibile considerare il solo aspetto del funzionamento politico e economico.

Per questo Giovanni Paolo II, nella sua Esortazione Apostolica Ecclesia in Europa – che a distanza di dieci anni dalla pubblicazione appare attualissima – si esprimeva con parole appassionate. Agli occhi del Papa «chiamato da un Paese lontano», da quella Polonia che allora era al di là della cortina di ferro, l’Europa appariva smarrita, senza memoria e senza fondamento: «Molti europei danno l’impressione di vivere senza retroterra spirituale e come degli eredi che hanno dilapidato il patrimonio loro consegnato dalla storia» (n.7), a causa del loro «agnosticismo pratico e indifferentismo religioso».

A Papa Francesco, che viene dal “nuovo mondo”, l’Europa sembra invece apparire vecchia, affaticata, quasi al tramonto. Forse è questo il senso di una sorprendente domanda che Francesco ha rivolto ad alcuni vescovi che gli stavano illustrando i grandi valori della cultura europea: «Il valore più grande non è la vita? E voi, europei, amate la vita?». La domanda, un po’ provocatoria, è seria. Il “caso Europa”, già segnalato da molti in rapporto alla religione, si evidenzia anche rispetto alla vita all’amore della vita? Vita e religione si intrecciano, ma l’eurosecolarismo che caratterizza una buona parte del continente, li ha drasticamente separati. Non è così altrove, perché il secolarismo non caratterizza il resto del mondo. L’angolo visuale eurocentrico tende a ignorare l’eccezione europea , ma si tratta di un’illusione ottica, peraltro accolta e favorita dall’élite culturale internazionale – minoranza molto influente – che si ispira al modello europeo e vuole imporlo ovunque.

In Europa, il progressivo “disincanto del mondo” avrebbe causato il passaggio da una certa insensibilità al fascino della “musica religiosa” (espressioni care a Max Weber) a una totale sordità dell’uomo europeo. E’ allora giusto chiederci cosa comporta essere “uomini privi di musica religiosa”. In modo più radicale possiamo chiederci cosa implica la “extra-culturazione” della religione, e precisamente del cristianesimo.

Occorre infatti riconoscere che almeno in alcuni contesti europei, geografici ma soprattutto intellettuali, sarebbe stata decretata  l’espulsione culturale della religione non solo dalla piazza pubblica ma anche dalla cultura diffusa.

Il neologismo ex-culturation («extraculturazione»), usato dalla studiosa francese Danièle Hervieu-Léger intende esprimere la grande novità del processo avvenuto. La religione – più precisamente il cattolicesimo – non farebbe più parte delle referenze comuni dell’universo culturale francese. Viene spontaneo chiedersi se quella nuvola cupa che non lascia intravvedere il cielo non sia costituita precisamente da questo universo culturale che ha decretato l’insignificanza e l’inesistenza del cielo, dichiarando che i valori e le rappresentazioni del cristianesimo sono fuori (e devono restare fuori) dal campo culturale e sociale della Francia e, in modo attenuato, dell’Europa intera.

La situazione è drammaticamente seria. Anche solo esaminando con attenzione le pur superficiali indagini demoscopiche, si ha l’impressione di una sorta di “stato confusionale” in cui versano ampi strati dell’opinione pubblica. Anche per il fatto che l’Europa sembra non essere più in grado di comprendere ciò che avviene fuori dal suo contesto.

Un fatto singolare e paradossale che riguarda una realtà culturale che fin dalle origini ha nominato e organizzato il mondo e gli spazi juxta propia principia. E’ diffusa la sensazione di non essere più capaci di andare al di là del nostro orizzonte, perché ci sentiamo ormai privi di una qualche mappa cognitiva, di una stella polare che illumini e orienti la navigazione in mare aperto. Questo significa che siamo come rassegnati al gioco delle emozioni e succubi del potere decisivo della tecno-scienza. Per le emozioni, in Occidente – in Europa, in particolare – il primato va ormai alla paura, paura degli altri e del futuro. Più che accettare il confronto e mettersi in questione, si assiste alla crescita del disinteresse per i significati condivisi, nella convinzione che spetta al singolo fare le sue scelte.

Sapendo tuttavia che questa convinzione è illusoria, perché i sistemi tecnici organizzano l’esistenza in modo globale e radicale, fino a inquadrare la vita in quanto tale, fino a decidere il bios. La cultura nichilista è funzionale al sistema tecno-scientifico, lo favorisce offrendogli la possibilità di poter disporre liberamente di qualsiasi significato in modo da non avere ostacoli di sorta al suo pieno dispiegamento. Così l’individualismo emozionale, l’espansione tecno-scientifica e l’epistemolgia materialista-biologista tendono non solo a confinare nel “pianissimo” la religione, ma a espungere dall’esistenza  umana la sua dimensione religiosa e spirituale.

E’ evidente che una politica che naviga a vista e una cultura impegnata nella “decostruzione” non possono neppure prestare ascolto agli interrogativi che pure sono presenti nel cuore di molti europei. Merita di essere segnalato uno di questi interrogativi formulato in modo sintetico e radicale dal cardinale Walter Kasper in un intervento su «Cristianesimo, democrazia nel futuro dell’Europa». Kasper si domanda: se «ci troviamo di fronte a un nuovo fenomeno postcristiano e post-religioso», ma soprattutto «cosa succede se non c’è più niente di sacro, né Dio, né la vita? Non rappresenta questo la fine di tutte le culture?».

L’interrogativo è grave in particolare di fronte alla leggerezza con cui si arriva a sostenere che sarebbe sufficiente inquadrare e garantire l’autodeterminazione individuale con un insieme  di procedure. Con un apparato  burocratico efficiente che non ha bisogno di legittimazione, si presume di garantire il semplice “funzionamento” della società, considerata come orizzontale, piatta e grigia: una costruzione tecnocratica per una moltitudine di individui isolati che non hanno bisogno né di un evento fondatore né di un ethos condiviso. E neppure di humanitas .

Sappiamo che il cammino dell’Europa è stato spesso tortuoso e problematico, anche rispetto alla religione. Ma se l’Europa ha una sua particolare attitudine alla “rinascenza”, Come sostiene Rémi Brague, forse la situazione di crisi che stiamo attraversando potrebbe aiutarci a comprendere l’inconsistenza di una costruzione che rimuove aspetti qualificanti della realtà umana. L’Europa può e deve ripensare il proprio cammino sia in rapporto ai nuovi interlocutori, esterni e interni a essa sia soprattutto rispetto alla novità delle sfide di oggi. Tra queste spicca l’esigenza di una visione in cui la forma umana di vita possa esprimere un senso che motiva la vita di ciascuno e quella di tutti. In questa prospettiva l’Europa è chiamata ad accogliere l’invito a considerare che «la religione non è un problema da risolvere, ma un fattore che contribuisce in modo vitale al dibattito pubblico nella nazione», come ha detto Benedetto XVI rivolgendosi alle autorità civili a Westminster Hall il 17 settembre del 2010.

Articolo pubblicato sull’Osservatore Romano del 03 aprile 2014